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NEW YORK  E LO STRIDE PIANO

 

 

Tratto da " Jazz " di Arrigo Polillo

Edizione aggiornata a cura di: Franco Fayenz.

Oscar Saggi Mondadori, Ottobre 1997.

Negli anni tra il 1917 e il 1920 sulla scena newyorkese i migliori pianisti neri i “tiklers”, come loro amavano chiamarsi che animavano i locali di Harlem, erano James P. Johnson il più stimato, Lukey Roberts, Eubie Blake, Willie Smith e il mitico Richard McLean. Cominciarono a trasformare il ragtime in jazz, mettendo a punto quel particolare stile che fu detto stride piano caratterizzato dall’accompagnamento della mano sinistra che suona alternativamente i bassi e gli accordi. Lo stride piano che iniettò nel ragtime gli umori forti del blues appena arrivato dal Sud, fu  il tipico stile pianistico della Harlem degli anni venti.
Stiamo parlando del quartiere residenziale della classe ricca, bianca, successivamente fu popolato da ebrei, da italiani, da irlandesi, da tedeschi, da finlandesi, tutti appartenenti al ceto medio. Diventa la “ Parigi nera ” e rapidamente si trasforma in un girone infernale. Era una città tranquilla quando la musica jazz cominciò a risuonare qua e là, a New York. Il blues, il vero jazz quello a cui ci si riferiva col termine “ gutbucket “ gut (interiora) , e bucket (secchio) lo si poteva ascoltare nei più miseri locali del quartiere. Il gutbucket è un simbolo della povertà dei neri americani, che spesso si facevano riempire dal macellaio un secchio con le interiora di maiale per la propria mensa. I sentimenti dei neri americani in quegli anni erano piuttosto confusi, quelli della black bourgeoisie, si sforzavano per integrarsi nella comunità americana, dall’altro si dava credito alle parole infuocate di Marcus Garvey il primo "apostolo" del nazionalismo separato che vagheggiava il ritorno alla madre Africa. Quella di Garvey era una fuga in avanti, e non soltanto perché proponeva un’evasione da un presente di miseria e di umiliazione ma perché precorreva i tempi di oltre quarant’anni. Per il momento però bisognava riverire i padroni di casa bianchi e rassegnarsi a   vivere    miseramente,  ammucchiati  in  squallidi alloggi, dove c’erano gli hot beds i “ letti caldi ” perché erano sempre occupati da qualcuno, a rotazione. Se da un punto di vista sociale il jazz è considerato alla pari del suo popolo, da quello degli addetti ai lavori bianchi gialli che siano, il giudizio è opposto e in questo su tutti c’è senz’altro quello di G.Gershwin autore del più bell’omaggio di un musicista bianco alla cultura nero-americana con l’opera Porgy and Bess. Gershwin sosteneva che < La grande musica del passato, in altri paesi, è sempre stata fondata sulla musica folklorica. Questa è la più ricca fonte della fecondità musicale…. Non è sempre stato riconosciuto che l’America abbia una sua musica folklorica… Io considero invece il jazz come una musica folk americana, non la sola ma una molto vigorosa e che è probabilmente nel sangue, nel modo di sentire della gente americana…> La attrazione era li a Nord di Manhattan ed è li che il jazz visse il primo periodo d’oro, l’apogeo come sostiene Arrigo Polillo sul suo libro “Jazz” nella seconda metà degli anni venti, visse la sua prima, splendida stagione che fu anche la stagione delle flappers le ragazze coi capelli alla garçonne che ballavano il charleston, delle gang rivali con le loro sparatorie e dei ragazzi e studenti coi pellicciotti di tasso e la fiaschetta piatta piena di pessimo wisky nella tasca posteriore dei pantaloni. Qualunque cosa fosse, il jazz, era visto come un’affascinante giungla, era ormai di moda, e anche i neri lo erano e tutta una serie di spettacoli da Harlem in giù fino al Greenech Village passando per Broadway nei migliori locali e cabarets ne contribuirono a crearne il mito. In questo un locale situato all’angolo tra la Lenox Avenue e la 142° strada ne diede un grandissimo contributo. Per qualche mese fu gestito dal pugile Jack Johnson ma senza fortuna, a cui subentrarono alcuni gangsters , il cui capo, un certo Madden, Owney Madden lo aveva trasformato in un elegante cabaret, Il Cotton Club. Divenne la meta obbligata del lungo safari che portava le signore ingioiellate dalle dimore del centro di Manhattan fino al cuore di Harlem per ascoltare l’orchestra di Duke Ellington ma che si seccavano se qualche nero sedeva a un tavolo vicino al loro.
Anni dopo un giornalista nero scrisse: < eravamo gente strana, bizzarra, divertente, semplice, tollerati soltanto in ragione del divertimento che i bianchi potevano cavar fuori da noi>.
Rokin in ryhthm & Bugle call rag
1933

Duke Ellington Orchestra

The roaring twenties

Flappers

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